LE FRASI CHE HO SOTTOLINEATO LEGGENDO
IL LIBRO DI TRUDI BIRGER "HO SOGNATO LA CIOCCOLATA PER ANNI" (QUI LA RECENSIONE).
Mi ricordavo con gioia
quella cioccolata calda, e la sognavo notte dopo notte. La prima cosa
che mi sarei concessa dopo la fine della guerra sarebbe stata una
bella tazza di cioccolata calda.
Quasi tutte tenevano gli
occhi bassi, fissi sulla terra battuta che, prima di loro, era stata
calpestata da anonime schiere, vite umane ridotte a grumi di paura e
di rassegnazione. Aspettavamo che ci annunciassero la nostra sorte,
una sorte definitiva: o la vita o la morte. La guerra durava già da
anni e tutte noi avevamo imparato a conoscere i nazisti.
“Mamma”, gridai di
nuovo.
“Non sono tua madre”,
disse. Voleva morire da sola. Ma io le sfilai la calza dal collo.
“Bambina mia”, disse,
ammettendo infine la mia presenza e parlando con la vecchia, elegante
formalità ricercata che ricordavo così bene, “sei venuta tra i
morti.” Lo sapevo. Ma non importava. Senza di lei, ero morta
comunque.
“Se non possiamo vivere
insieme, moriremo insieme”, le dissi. Era ciò che avevo giurato a
me stessa sul treno.
Capivo la gravità della
nostra situazione? Credo di sì, come una persona giovane può capire
quello che esula dalla sua esperienza. Ma ciò che capivo erano le
espressioni ansiose sui volti dei miei genitori.
Per me l'Olocausto cominciò
nella cella frigorifera di Jonas. Quel luogo rappresentò la fine di
una vita apparentemente normale.
Non mi sono mai vergognata
di portare la stella ebraica. I nazisti non sono mai riusciti ad
inculcarmi l'idea che essere ebreo è un peccato.
Qua e là i muri di Slobodka
erano cosparsi di macchie rosso vivo, e guardandoli mi rallegrai
perché il rosso era il mio colore preferito. Ricordo di aver cercato
di tirare su di morale i miei genitori dicendo: “Guardate che belle
pitture”. Non ebbero il coraggio di dirmi che era sangue umano.
Potevamo uscire di casa, ma
era pericoloso avventurarsi per le strade. Non sapevi mai se sarebbe
toccato a te o a qualcuno dei tuoi cari essere arrestato o fucilato.
Nessuno si occupava di noi,
nessuno ci proteggeva dai crimini che venivano commessi
quotidianamente, nessuno protestava per ciò che veniva perpetrato
contro di noi. Eravamo stati dimenticati.
Le madri avevano dovuto
affrontare una scelta atroce. Avrebbero voluto andare con i loro
bambini per cercare di salvarli, ma d'altro canto volevano restare in
vita. Avevano altri cari da proteggere, altri figli, mariti,
genitori. Così subirono impotenti la separazione dai loro piccoli.
Cercarono di decidere lì per lì, senza potersi consigliare con
nessuno, sforzandosi di compiere la scelta più giusta. Ma cos'era
“giusto”?
Ovunque girassi lo sguardo
c'erano emaciati corpi nudi, così raggrinziti dalla prolungata
denutrizione da non sembrare più nemmeno donne. Quegli esseri che
una volta avevano fatto l'amore, partorito e nutrito figli erano
adesso ridotti a una parodia di umanità. Solo gli occhi che
chiedevano pietà, che esprimevano il desiderio muto di poter morire
in pace.
A volte mi chiedo perché si
prendessero la briga di mantenere quel simulacro di ospedale. Lo
scopo del campo di concentramento era quello di uccidere gli ebrei,
perché allora fare qualcosa per tenerli in vita? Sono convinta che
fosse solo per prolungare la nostra sofferenza. Non solo ci volevano
morti, volevano torturarci, spezzarci nell'anima. Glielo leggevi in
faccia che si divertivano a vederci soffrire. Facevano tutto il
possibile per renderci le cose penose. Ecco perché ci affamavano ma
non completamente, perché continuassimo a vivere fino allo stremo.
Avevo sognato la cioccolata
calda per anni, da quando ero stata rinchiusa nel ghetto di Kovno. Ma
adesso non potevo berla. Il mio apparato digerente era troppo
delicato, come quello di un bambino.
Quando ci trasferimmo dalla
chiatta tedesca che stava affondando alla nave da guerra inglese,
passammo di colpo dalla condizione di schiavi a quella di esseri
umani che meritavano cure e trattamento medico. Ci vennero restituiti
d'un tratto i basilari diritti umani che ci erano strappati dai
nazisti nel 1941. ma occorsero mesi, perfino anni, prima che
assimilassimo completamente quel ritorno nel mondo degli uomini.
Dovemmo ricominciare
dall'inizio, perché non avevamo più niente da cui continuare.
Ancor oggi una parte di me
dice: “cancella quei cinque anni dalla tua vita! Non parlarne. Vivi
nel presente, per il futuro”. Quella parte di me vuole scrollarsi
di dosso i ricordi. Ma io non fuggo, perché un'altra parte in me
dice che cancellare il passato è un'offesa alla memoria di chi ha
sofferto e all'immensa moltitudine che non è sopravvissuta. Per
questa ragione ho spesso parlato a gruppi di scolari israeliani nella
giornata commemorativa dell'Olocausto. Trovo penoso e spossante stare
di fronte a un gruppo di persone ed esporre le mie sventure. Mentre
parlo, non vedo più i giovani davanti a me. Vedo il ghetto e i
campi. Vedo le vittime e i loro cadaveri. E tutta la paura di quegli
anni ha di nuovo il sopravvento. Eppure, per quanto sia estenuante,
continuo a farlo. Mi sento in dovere di trasmettere la storia
dell'Olocausto alla nuova generazione, ed è giusto che sia così
visto che c'è ancora chi la può raccontare.
Questi ricordi sono così
intensi e oppressivi che a volte mi chiedo: a che serve parlarne? Chi
non li ha vissuti può riuscire a capire? (…) Comunque sia, anche
dopo che il lettore avrà chiuso e riposto questo libro, io resterò
con la mia pena. Quando accade qualcosa a qualcun altro, è
terribile. Ma quando accade a te, il dolore non ti abbandona. Tu sei
solo con la tua sofferenza.
Se volete leggere i miei pensieri sul libro vi rimando a questo post! Buona lettura
0 comments