Labora et ora

Una festa, domenica scorsa. L'amatriciana da preparare, una passeggiata in mezzo ai boschi da far partire. Io che punto la sveglia alle 6:30, io che alle 7:37 esco di casa. Ciao, ci vediamo a pranzo su e mi chiudo il portone dietro. Scendo le scale. Metto in moto la macchina. Parto.
Qualche curva dopo lo speaker di Radio Subasio ha la voce spaventata, dice che si è avvertita una nuova scossa. Percepisco la paura nella sua voce, cerco di chiamare a casa ma non ci riesco. Prendo la linea una decina di minuti dopo, la mamma mi dice Stavolta pensavo che la buttasse giù, mi legge in diretta il televideo, magnitudo 7.1 mi dice. Mi gelo.
Arrivo alla sede della proloco, sono tutti fuori, stanno preparando, nessuno ha sentito niente, sono io a dar loro la notizia.
Ci guardiamo negli occhi, ognuno cerca di chiamare quelli di casa, il cuore batte all'impazzata. Dove sarà stato l'epicentro? Che cosa sarà crollato? Con quella potenza lì c'è poco da sperare.
Passano i minuti, ma restiamo tutti immobili, internet non prende, le notizie viaggiano dal bar a noi. Arrivano persone, danno versioni diverse. C'è chi parla di Rieti, chi di Norcia, chi di Macerata. Non sappiamo che fare, vorremmo tutti sapere, ma abbiamo una giornata di festa da preparare.

Entriamo in cucina, mi metto a tagliare la cipolla e piango come una scema. È la cipolla, dico. Ma non è solo quello.
È la paura.
È il non esserci stata.
È il non aver sentito.
È la consapevolezza che una frazione di secondo può cambiarti tutta la vita.
È il pensiero che la mia casa poteva non esserci più e con la mia casa la mia famiglia. Tutti, tranne me che ero uscita un secondo prima.
È il terrore che non finisca.
È l'ansia che crolli tutto, sopra le nostre teste, mentre diciamo stronzate e scriviamo necrologi scemi su di noi, ragazze cuoche di una stupida festa della castagna.
Piango.
Rientro a casa la sera, quando ormai è chiaro che l'epicentro sia stato a Norcia.
Rientro dopo una giornata di festa in cui non si è fatto altro che parlare di questo. Ognuno ha la sua storia da raccontare: chi era a caccia e si è sentito cadere le ghiande addosso, chi era a funghi e vedeva i sassi rotolare, chi aveva sentito un rumore come di cavalli al trotto. Ascoltarle tutte, una dopo l'altra, assistendo sgomenta al rimbalzo continuo delle stesse immagini su whatsapp (Castelluccio distrutto, il Vettore spaccato), mi mette addosso una sensazione che non so descrivere, nemmeno oggi che sono passati tre giorni.
L'idea che non ci sia più Norcia, che non ci sia più Castelluccio mi distrugge. Era il mio angolo di Umbria preferito, un posto in cui tornavo ogni tanto, ogni anno. Quelle strade sono le mie strade. Quelle montagne le mie montagne, quelle che salutavo da bambina gridando Ciao Heidi, ci vediamo il prossimo anno. Quelle lì. Quelle che hanno incorniciato picnic e gite di Pasquetta, quelle lì. Castelluccio e la sua fioritura erano (sono e saranno) un pezzo del mio cuore.

Il mio cuore, dentro questo cuore d'Italia che batte troppo forte.

Impossibile fermarlo, impossibile dirgli di stare tranquillo, che è tutto finito: ormai non ci crede più.
Batte all'impazzata, sgomento, arrabbiato.
Stringe forte tutto quello che ha, quello che gli resta; fiero dichiara la sua appartenza, ma il tremore continuo, insistente, mina alle basi la speranza.
Una volta si spera, due volte pure, ma alla terza...chi può dire che finirà davvero? Chi può dire che sia stato l'ultimo attacco quello di domenica mattina? 
Ricominciare non sarà semplice affatto, ma vorrei tanto, un giorno, tornare a fare foto come queste. Castelluccio è troppo bello per morire in questo modo: non può. A giugno vorrei poter tornare ad ammirare la fioritura di quella conca che diventa di mille colori, non per magia, ma per il lavoro dell'uomo.
Per questo credo che non resti altro da fare che rimboccarsi le maniche e seguire la regola benedettina, con priorità al contrario però: labora et ora.
Proviamoci.

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