Non esiste un futuro.
Passeggiavo lungo una strada bianca con Alice per mano, qualche giorno fa.
La strada era in mezzo a una grande vigna ormai abbandonata, una vigna che per alcuni anni ho vendemmiato, guadagnando, credo, i miei primissimi soldi.
Avevo appena finito il liceo e in un piccolo paese come il mio tutti avevano saputo, all'improvviso, della mia eccellenza scolastica: un cento e lode pubblicato sul corriere dell'Umbria con accanto il mio nome e cognome. Mi avessero chiesto il permesso glielo avrei certamente negato.
Tutti sapevano e tutti chiedevano: "Brava, bravissima. Ora che farai?".
Rispondevo con sorrisi e alzate di spalle. Non lo sapevo che cosa avrei fatto dopo la scuola, ma nessuno da un'eccellenza così spiccata si aspettava un "non lo so".
Con questo stato d'animo, a metà tra il terrorizzato e il confuso di una confusione totale che aumentava esponenzialmente con l'avvicinarsi di settembre, ho messo per la prima volta i piedi in quella vigna.
Me lo ricordo bene.
Mi ricordo la sensazione di frustrazione e fallimento che mi sentivo addosso.
Anziché alle prese con un ipotetico test di ammissione di un'ipotetica prestigiosa università ero lì, in mezzo alla terra, sporca e sudata. Proprio io. Ma come ci ero finita?
Di quelle settimane ricordo benissimo il malessere, la voglia di sparire di colpo.
Ricordo le domande insistenti di chiunque e la mia tentazione di piangere ogni volta e gridare a tutti "Basta, vi prego. Ho studiato, è vero. Mi piacciono i libri, è vero. Amo la conoscenza, sì. Sono curiosa, tanto. Stop. Ho preso i voti che ho preso. Stop. Ma non voglio fare il medico. Nemmeno il notaio. Non voglio diventare presidente della Repubblica né girare il mondo a far girare soldi. Non voglio andare in America. Basta, vi prego".
Sì, su ciò che non volevo ero fortissima.
Di quelle settimane ricordo anche R., che lavorava in quell'azienda tutto l'anno, che era lì quasi sempre anche a vendemmiavare con noi, ricordo il silenzio di R., l'unico che non si congratulava con me, l'unico che non chiedeva. Cantava De André tagliando grappoli maturi, aveva due lauree e alla terra voleva dedicare la sua vita e io non capivo proprio perché.
Oggi ho l'età che aveva lui allora, dodici anni più di quella fine d'estate lì e tanti perché non li ho ancora capiti, ma certamente sono migliorata.
Passeggiavo mano nella mano con Alice dentro quella vigna abbandonata, qualche giorno fa.
Cercavamo cicoria e lei ogni tanto vedeva impronte di brachiosauro, ma anche di diplodoco (per fortuna nessun tirannosauro all'orizzonte). Mentre lei vedeva dinosauri, io sentivo una voce rauca che cantava "Via del campo".
È buffo come certi luoghi, o certe persone totalmente di passaggio, si conquistino senza nessuna pretesa un angolino di cuore e di memoria.
Non so che vita avrei vissuto se avessi firmato i fogli dell'iscrizione alla facoltà di matematica (sarebbe stata senz'altro quella, la scelta), ma credo che in quella che vivo ci sia molto di ciò che mi hanno lasciato quelle vendemmie lì: le mani sporche, la gioia del fare, la consapevolezza che la conoscenza possa non essere urlata o sbattuta su una pagina di giornale, che ci si possa non vantare e tenere tutto per sé, come un tesoro prezioso che si conquista più per amor proprio che per i complimenti della gente.
Non esiste il futuro, ha detto Piero Angela in tv qualche sera fa. Ne esistono tanti, di futuri. Sono quelli che costruiamo noi con le nostre scelte e con le nostre piccole azioni quotidiane.
Il mio, a dispetto delle apparenze, non era fatto di camici bianchi o calcoli complicatissimi e indecifrabilissimi. Era fatto di terra e lavoro manuale, ma negli anni del liceo non lo sapevo.
Oggi lo so. L'ho imparato in mezzo a quella vigna. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
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