Fino a quando la mia stella brillerà • Frasi

LE FRASI CHE HO SOTTOLINEATO LEGGENDO IL ROMANZO DI Liliana Segre "Fino a quando la mia stella brillerà" (QUI LA RECENSIONE DEL LIBRO).

Io porto il nome di mio nonno Alberto, che mia mamma mi ha insegnato a conoscere e ad amare, che sento sempre con me... in ogni finestra che si ape spinta dal vento, in ogni goccia di pioggia che cade dal cielo, con la mano sulla mia testa. Il mio nome significa: rinascita, voglia di vivere, rivincita... mio nonno, sebbene privato di una tomba, sebbene ucciso e le sue ceneri fatte passare per un camino, attraverso la memoria e l'amore, mio nonno vive.
Susanna sapeva che quelle foto avrebbero contribuito a curare le mie ferite, quelle dell'anima. Lei stessa mi raccontava di averle guardate ogni giorno in attesa che io tornassi perché solo i giorni belli le davano coraggio e le facevano sentire meno la solitudine e la lontananza.

Sì, a rivedere adesso quei momenti della mia vita, so cos'era la felicità. In mezzo al mare, il tempo bello e il sole che sulle onde faceva uno scintillio. Quello scintillio così intenso non l'ho più ritrovato sul mare.

Diceva allo zio che non gli piacevano i fascisti perché usavano toni aggressivi e non accettavano critiche. E questo creava un clima di violenza tra le persone. Lui detestava la violenza. Era convinto che la usassero solo le persone che non sapevano ragionare, le più stupide, che non erano capaci di confrontare le proprie idee con quelle degli altri.
L'indifferenza fa male. È l'arma peggiore. La più potente. Perché se qualcuno ti affronta e ti vuole fare del male, puoi difenderti. Ma se intorno a te c'è il silenzio, come fai a difenderti?
Mi sentivo come in quel gioco che fanno i bambini più piccoli. Quando fanno finta di non vederli. Come se non esistessero. Il piccolo si agita e urla e strepita per farsi sentire, per essere considerato, ma il grande fa finta di niente, come se fosse invisibile. Anche se è solo un gioco, il piccolo si sente smarrito. Non sa che fare. Dubita persino di esistere.
Ecco, io mi sentivo così. Era come se all'improvviso io potessi vedere gli altri ma gli altri non vedessero me. È stato come se da un momento all'altro il mondo non mi avesse più guardata, come se non si fosse voltato a vedere quello che accadeva a noi bambini ebrei.

Avevo tredici anni, anche io avevo molta paura, ma in quei momenti ancora non credevo che potesse esistere un luogo come Auschwitz.

Sul treno io e papà eravamo stretti l'una all'altro. Papà non aveva più lacrime né parole, solo ogni tanto mi diceva, come in preda a un delirio, di perdonarlo per avermi messo al mondo. Era consapevole che non poteva fare più niente per salvarmi e non riusciva a sopportarlo. Io sapevo che era la disperazione a farlo parlare, così mi stringevo a lui cercando di dargli conforto. Almeno eravamo insieme, questo era per me sopra ogni cosa.
Successe una cosa dentro di me senza che me ne rendessi conto: a un certo punto la mia mente cominciò a rifiutare di partecipare alle cose terribili che succedevano nel campo. Non mi voltavo quando qualcuna di noi era messa in punizione, non ascoltavo quando le prigioniere parlavano di violenze a cui avevano assistito o a cui erano state sottoposte. Non sentivo se qualche prigioniera raccontava cose successe in altri campi di cui aveva sentito parlare, o quando qualcuna ricordava i tempi prima del lager. Io non volevo sapere. Non lasciavo il mo cervello libero di registrare quello che accadeva intorno a me. Se avessi partecipato con il cuore alle sofferenze spaventose che vedevo ogni giorno, se mi fossi affezionata a qualche prigioniera che avrei potuto veder morire da un giorno all'altro, non ce l'avrei fatta a sopportare quei giorni, uno dopo l'altro.

Io non mi appoggiavo a nessuno e nessuno doveva appoggiarsi a me per sopravvivere. Ero diventata egoista. Era l'unico modo per continuare a vivere.

Quello fu un momento fondamentale della mia vita. La forza che trovai nell'istante in cui rifiutai di vendicarmi diventando un'assassina a mia volta, equivale a una grande vittoria per me. Scelsi la vita, la loro cultura di morte non mi apparteneva e la lasciavo nel lager.

In fondo, nessuno voleva ascoltare per davvero. La guerra era finita, bisognava andare avanti. Ma io no, io restavo ad Auschwitz. Non riuscivo a venire via dal mio inferno. E tantomeno a parlarne.
Se volete leggere i miei pensieri sul libro vi rimando a questo post!

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