Diario della quarantena • Settimana 2


Scrivere per tenere traccia. Scrivere per elaborare. Scrivere.

Diario della quarantena • Settimana 1

È arrivato il primo caso di covid-19 nel mio comune umbro di poco più di 2000 abitanti. La notizia è giunta lunedì mattina e da quel momento la paura che sentivo latente in me è diventata reale, si è impossessata di me.

Amici e conoscenti sono finiti in quarantena. Non più numeri freddi, non più dati statistici, ma persone, persone con cui avrei passato i pomeriggi di questa primavera al parco comunale, se fosse stata una primavera normale.


Sempre lunedì la fabbrica per cui lavoro da casa ha messo in pausa la produzione, così all'improvviso mi sono ritrovata con un sacco di tempo in più che ho faticato, e tanto, a riempire.

Ho provato a fare le fette biscottate in casa, ma si sono bruciacchiate; ho provato a fare una focaccia al sale morbidosa per Alice, ma anche quella non si è lievitata come avrebbe dovuto. Sono sicura che quello che prepariamo in cucina risente del nostro umore e il mio è stato pessimo, in questi giorni.

Mi sono ripresa un attimo giusto per la festa del papà, ho cucinato ravioli con patate e salsiccia, cordon bleu e patate arrosto. Ho anche farcito i bignè e tutto è andato bene.

Mi manca mia sorella e mi manca la mia nipotina. Telefonate di due ore il pomeriggio non sostituiscono uno sguardo complice e cinque minuti di gioco reale.
Se non avessi Alice credo che dormirei tutto il giorno. Forse scriverei. Forse leggerei. Forse sprofonderei sotto le lenzuola alla ricerca di cose con cui passare il tempo.

Ma non è questo il problema.
La mia vita non è stravolta. Io vivo in campagna. Ho tanto spazio e tanto verde. Io esco, respiro. Nemmeno prima andavo chissà dove. A casa sono sempre stata bene.
Il fatto è che adesso non è una mia scelta. L'ho sempre sospettato di non poter vivere senza libertà e adesso lo so con certezza.
Sono un animale libero e selvaggio e l'idea che non posso mettere in moto la macchina per andare a comprare un cartoncino al Lidl, tanto per dire, mi distrugge.
Non posso portare Alice a far merenda da sua cugina.
Non posso lavorare.
Non posso andare a fare una passeggiata fino al paese.
Non posso andare a comprare un gelato al bar.
Non posso scendere in città a prendere un gomitolo se mi serve un colore mancante.
Non posso.

La differenza tra la mia vita di prima e quella di adesso è sottile, ma sostanziale: non è più una mia volontà quella di stare a casa, ma un obbligo, che io rispetto ben volentieri, sia chiaro.

Non so che persone saremo dopo tutto questo. Non so quando sarà il "dopo" di tutto questo. So che ogni volta che sento l'inno mi viene da piangere. Alice applaude felice e io glielo canto una, due, mille volte. Credevo che a giugno avrei trovato per lei una magliettina azzurra. Credevo che saremmo state davanti al maxischermo a guardare gli europei di calcio. Credevo che l'inno l'avrebbe imparato così.

Questa seconda settimana di quarantena è stata brutta. Sebbene io non andassi in mezzo alla gente dal 24 febbraio, solo adesso, solo nel momento in cui il virus è arrivato davvero qui, solo ora ho realizzato che ci siamo in mezzo tutti.
Compresa me, la mia famiglia, il mio compagno che oggi ha smesso di lavorare, compresa Alice.

Andrà tutto bene, certo.
Tra due mesi forse. Tre, magari.
Quanti sono tre mesi vissuti così? Probabilmente moltissimi.
Alice imparerà a camminare e dirà nuove parole, oggi per esempio ha ripetuto mille volte "ghi", dopo che io ho strapazzato Maya che se ne va in giro a stanare e a mangiare i "grilli" sotto terra.

Non voglio vivere le prossime settimane di quarantena come questa. E per affrontare tutto con un altro spirito c'è solo un verbo che mi può aiutare: fare. Fare è sempre l'antidoto migliore contro l'arrovellarsi dei pensieri.

Andrà tutto bene, ma ci vorrà molto tempo.
Forse avrò imparato l'arte della pazienza, alla fine di tutto.

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