Ave Mary • Michela Murgia

Un libro sulla Madonna e su tutte le donne.

Questo post è apparso originariamente sul mio vecchio blog, Scarabocchi di pensieri, nel marzo 2012.
Devo fare i conti con Maria, anche se questo non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie, sulla mia panettiera, la mia maestra e la mia postina. Su tutte le donne che conosco e riconosco. Dentro ci sono le storie di cui siamo figlie e di cui sono figli i nostri uomini: quelli che ci vorrebbero belle e silenti, ma soprattutto gli altri. Questo libro è anche per loro, e l’ho scritto con la consapevolezza che da questa storia falsa non esce nessuno se non ci decidiamo a uscirne insieme.

Queste parole di Michela Murgia, sulla quarta di copertina, mi hanno convinta a comprare il libro. Soprattutto mi ha convinta il suo sottotitolo: E la chiesa inventò la donna.

Sarà che ho cominciato a leggere “Ave Mary” quando fuori c’era la neve, ma andare avanti nella lettura, all’inizio, è stato piuttosto complicato. Per inizio intendo le prime sessanta pagine più o meno, nelle quali tutto mi sembrava tranne che non si parlasse della Madonna. Dal terzo capitolo però, complice la neve che nel frattempo si era sciolta, la lettura mi è sembrata molto più scorrevole e interessante, perché in effetti, poi, sono diventate protagoniste le donne, è diventato protagonista il loro ruolo sociale marginale.
Se chiudiamo gli occhi e pensiamo alla Madonna è probabile che ci venga in mente una bella statuina con lo sguardo basso, il viso velato, con un abito bianco o celeste, con le mani giunte e il capo chino. Questa è l’immagine che prevale della Madonna dalla metà dell’Ottocento, un’immagine che si pone come modello di perfezione cui nessuna donna potrà mai arrivare, anche volendo. La Madonna di oggi è una Madonna sofferente, che ha smesso anche di essere madre. Non c’è più con lei il bambino con cui era stata sempre raffigurata nel Rinascimento e nei secoli successivi.
 Se chiudiamo gli occhi e pensiamo alla Madonna sicuramente non ci verrà mai in mente l’immagine di una donna che gira per casa coi jeans e i bigodini in testa, anzi, se domani un’artista decidesse di rappresentarla così, probabilmente sarebbe accusato di blasfemia. Eppure, prima delle apparizioni di Fatima e Lourdes, la Madonna era spesso rappresentata come una donna quasi normale. Caravaggio, ne la Madonna dei pellegrini, la dipinge come una popolana qualsiasi, carnale, che con un abito scollato, tenendo in braccio il suo bambino, si affaccia curiosa in strada. 

Michela Murgia, credente, trova la radice della relegazione delle donne ad angeli del focolare nella pessima interpretazione che è stata data della Bibbia, pessima interpretazione basata su omissioni e superficialità, che reggono l’impianto maschilista della chiesa.

Michela Murgia fa riflettere su quanto oggi l’immagine che viene imposta della Madonna sia completamente diversa. Oggi è solo una Mater Dolorosa.
Se chiudiamo gli occhi e immaginiamo il temperamento di Maria probabilmente ci viene in mente una ragazza, una donna, triste e passiva, che fa quello che le viene ordinato, senza alcuna libertà di scelta. Ebbene, la Murgia, che conosce quello in cui crede, afferma che non c’è idea più sbagliata. Scrive infatti che Maria di Nazareth è la persona che ha subito il torto più grande nel dipanarsi di questa colossale struttura di dominio. È stata strumentalmente trasformata in icona della più passiva docilità, in muta testimonial del silenzio-assenso, e ha finito in modo paradossale per essere proposta come esempio luminoso di donna funzionale ai piani altrui, lei che i piani altrui li aveva sovvertiti tutti senza pensarci su neanche un istante. La Murgia afferma che il sì all’annunciazione di Maria è quanto ci sia di più distante dall’ordine patriarcale. Insomma, Maria di Nazareth aveva sedici anni, un padre e un promesso sposo. Un giorno arriva un angelo che le dice che avrà un figlio e lo dice a lei, non al padre che aveva ancora la potestà. Lo comunica a lei e non è un ordine, ma una richiesta. Maria è protagonista attiva di quella decisione, cosa del tutto inusuale all’epoca dei fatti. Scrive la Murgia: Una fanciulla per bene davanti alla proposta sconcertante di restare incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto nel migliore dei casi rifiutare, nel peggiore chiedere tempo. Dire qualcosa di molto assennato e prudente, tipo “ne parlo con mio padre”. Oppure con qualcuno di più grande, più esperto, più potente. Poteva parlarne con il suo promesso sposo, per esempio. (…) Maria si guarda bene dal fare tutto questo. Se l’angelo è un anticonformista, lei lo è di più. Accetta, ma non comunica a nessuno la sua decisione. Parte e va dalla cugina, torna tre mesi dopo quando la pancia è ben evidente. Solo un sogno convincerà Giuseppe della buona fede della sua sposa, della sua purezza, e solo così Maria si salverà dalla lapidazione. Vista così, insomma, Maria non appare certo come lo stampino perfetto di tutte le donne per bene.

Questo “nuovo” ritratto della Madonna che, confidenzialmente, la Murgia chiama Mary, è stato l’argomento che più mi ha colpito e interessato. Ecco io non ho mai letto la Bibbia, non penso nemmeno di credere in dio, però capire la religione mi interessa, sono convinta che, come si legge nel libro, anche chi non crede inevitabilmente è impregnato di quell’educazione cattolica impartita per millenni che, per forza di cose, influenza la società in cui viviamo.
Alla fine, quando ho chiuso il libro, avevo un’immagine nuova della Mary e avevo anche una nuova concezione dell’immagine della donna che dà la Bibbia. 
L’altra parte che mi ha molto colpito è infatti quella in cui Michela Murgia analizza quella che lei stessa definisce la scomoda parabola, per me assolutamente sconosciuta finora. Praticamente ho scoperto che insieme alle più note parabole della pecorella smarrita e del figliol prodigo ce n’è un’altra, quella della dramma perduta. Io non l’avevo mai sentita. Ha per protagonista una donna che ha perso una dramma, una moneta, e per cercarla mette a soqquadro casa. Alla fine la ritrova e per festeggiare invita le amiche. Nel libro si afferma che le tre parabole sono raccontate nello stesso momento da Gesù, quindi sono tra loro molto legate da un evidente filo logico: dio, come il pastore della prima parabola, festeggia più per la conversione di un peccatore che per la fede di novantanove giusti che camminavano già sulla retta via; dio è misericordioso come il padre della seconda parabola che festeggia il ritorno di un figlio che certo non si era comportato troppo bene. Continuando su questo filo logico è evidente, afferma la Murgia, che allegoricamente la parabola della dramma perduta mostra dio come una donna distratta. Sarebbe scomodo, per il maschilismo che caratterizza la chiesa, ammettere che dio possa avere anche la voce di donna. Si legge infatti che l’allegoria che suggerisce è inaccettabile per la sensibilità tutta maschilista dell’educazione cattolica tradizionale, che può anche ammettere un Cristo descritto come pecoraro sbadato con il suo gregge, e arrivare ad accettare un Dio padre privo del più elementare senso della disciplina; ma non può consentire che l’identità divina venga rappresentata da una figura femminile, meno che mai da una casalinga disperata perché non trova la sua moneta. La Murgia definisce questa parabola dotata di un potenziale sovversivo, non solo per quanto già spiegato, ma anche perché mostra un’immagine rivoluzionaria della donna: c’è una donna che vive da sola, non c’è traccia di una presenza maschile, c’è una donna che è autonoma, probabilmente lavora perché quella moneta è la sua, c’è una donna “moderna” che invita le amiche per festeggiare. Una donna sola e padrona dei mezzi quindi, non proprio quell’angelo del focolare che per secoli la chiesa ha cercato di imporre come modello femminile.

A partire dalle considerazioni religiose, Michela Murgia analizza la situazione concreta, il modo in cui per secoli hanno vissuto, e forse vivono ancora, le donne, costrette a vivere per espiare quel peccato originale della Eva tentatrice senza minima speranza di riuscirci, avendo come modello di perfezione una Madonna distante che non invecchia mai. Invece le donne invecchiano, eccome, non diventano nemmeno affascinanti come gli uomini brizzolati, no, hanno problemi di tutti i tipi, come mostrano le pubblicità, non resta loro altro che il ritocco estetico. 
È interessante scoprire la disparità di trattamento dei sessi anche nella beatificazione, è interessante scoprire come ha giustificato la chiesa il matrimonio: uomo e donna sono come Cristo e chiesa. Esisterebbe la chiesa senza Cristo? Ecco qua servita la ricetta di una donna dipendente dal marito. 
È interessante scoprire come abbia fatto comodo a Giovanni Paolo II una donna caritatevole come Madre Teresa di Calcutta, è lei stessa che dice: “È questo il destino di noi donne, per questo siamo state create: per essere il cuore del focolare o il cuore della madre Chiesa”, dando la zappa sui piedi a tutte le altre donne che magari aspiravano ad altro.

Dalla lettura di questo libro che, come si è capito, è un po’ una specie di saggio, ho scoperto insomma un bel po’ di cose che ignoravo completamente, non essendomi mai interessata all’argomento. L’esperimento mi è piaciuto, quindi forse riproverò con qualcosa di simile. Il tutto comunque non cambia il mio rapporto con la fede e, soprattutto, con la chiesa. Anzi, se possibile, quello con la chiesa è anche peggiorato, insomma questo saggio di una credente convinta mi dà ragione: la chiesa è pura ipocrisia. Ovviamente non voglio generalizzare e non dico che tutti i preti sono uguali, anzi, però in linea di massima credo ci sia una diffusa ipocrisia proporzionale al potere che si ha nelle proprie mani.
Se volete leggere le frasi che ho sottolineato leggendo il libro vi rimando a questo post!

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